Allarme son fascisti… Ma lo sapevamo già!

mai più fascismo

Di seguito il comunicato della Rete napoletana contro il razzismo, il fascismo e il sessismo.

“Non corriamo dietro la “verità” delle inchieste giudiziarie, ci basta quella dei fatti. A Napoli migliaia di persone sanno che Casapound è un’organizzazione nazifascista, come gli oltre 5000 che manifestarono contro la sua apertura già nel 2009!”

Una lunga sequenza di aggressioni fasciste, agguati come quello che portò all’accoltellamento degli studenti universitari fuori la facoltà di Lettere, attentati incendiari come quelli al laboratorio Insurgencia, l’incitazione all’odio razziale o i discorsi sullo stupro di una ragazza perchè “ebrea”…

Conosciamo molti degli avvenimenti citati nelle cronache di oggi, abbiamo fatto a lungo informazione pubblica, mobilitazione e sensibilizzazione politica su questo. Non abbiamo elementi per valutare le accuse sul piano giudiziario e neanche ci interessa. E per coerenza non prendiamo certo per oro colato i teoremi che si rifanno a quell’armamentario dei reati “associativi” partorito dalle leggi emergenziali che tante volte vengono usati invece contro i movimenti sociali come quelli per la difesa ambientale o contro la precarietà e l’austerity, insieme alle centinaia di denunce e processi cui assistiamo in questo paese contro studenti, disoccupati, lavoratori, militanti, ambientalisti, antirazzisti, antifascisti. Gli stessi magistrati che oggi tengono quest’operazione hanno già tempestato di denunce e processi i movimenti sociali napoletani. Magari per rifugiarsi nella comoda lettura degli “opposti estremismi”, come se fossero la stessa cosa una lotta anche dura alla precarietà, al neofascismo o al razzismo e dall’altra parte il pestaggio di un migrante o un pogrom contro i rom (come è successo recentemente a Giugliano)…

Colpisce invece l’ipocrisia diffusa sui media e nella politica. Qualcuno aveva forse bisogno di questa inchiesta per prendere atto della natura squadrista delle formazioni neofasciste come Casapound e della lunghissima sequenza di atti che ne sono conseguiti a Napoli come in tutta Italia, qualcuno aveva davvero dubbi sulla “pedagogia” razzista e xenofoba che queste formazioni portano avanti (ben incoraggiate in un paese dove è stata al governo persino la Lega Nord…), sulla loro cultura sessista, sul loro ispirarsi apertamente al nazifascismo (il leader nazionale Iannone in pubblica intervista defini Hitler “un rivoluzionario”)…?

Qualcuno pensava forse che Gianluca Casseri, “scrittore d’area” cancellato in fretta e furia dal sito di Casapound dopo che aveva assassinato a freddo dei lavoratori immigrati, fosse un “pazzo isolato” e non già un neofascista cresciuto in questo ambiente?

Di certo noi lo sapevamo già! E lo sapevamo in tantissimi, a partire dalle oltre 5000 persone, studenti, donne, migranti, che contestarono duramente in piazza l’apertura di un centro di Casapound nel quartiere Materdei già nel 2009 e che hanno continuato a farlo fino a impedirlo.

Basta osservare i fatti, gli infiniti episodi di razzismo e di squadrismo che quotidianamente si riproducono in Italia da parte di questi gruppi, basta avere memoria delle trame nere che con la regia dei servizi segreti hanno insanguinato il paese in una storia non certo lontana.

E chissà cosa hanno da dire su questi temi quei personaggi di potere che allevano e proteggono queste formazioni e la loro ideologia, che li sostengono economicamente e politicamente. Per stare in Campania il parlamentare del PDL ed ex missino Laboccetta, l’ex presidente del consiglio provinciale Rispoli e tanti altri.

Abbiamo sempre respinto al mittente, e continueremo a farlo, la costruzione secondo la quale Casa Pound sia un’organizzazione formata da “bravi ragazzi” impegnati nel sociale, così come quella che legge le loro pratiche paragonandole ai movimenti realmente antagonisti, come uno scontro tra “opposti estremismi”. Li abbiamo sempre considerati pedine di un potere più grande e nemico di donne, immigrati, studenti, lavoratori e disoccupati sui cui vengono puntualmente scaricati i costi della crisi e che ogni giorno si mobilitano per cambiare le condizioni di tutti quelli che come loro sono sfruttati e oppressi.

Restiamo convinti che contro il diffondersi di pratiche squadriste e neofasciste, contro le pulsioni xenofobe e sessiste, rimane fondamentale il piano della mobilitazione sociale diretta, del presidio territoriale, l’informazione politica e l’autorganizzazione dal basso prodotte dalle lotte sociali e dai movimenti. Ed è su questi punti che la rete e tutte le realtà che si oppongono al neofascismo, all’autoritarismo, al sessismo e al razzismo devono sentirsi costantemente impegnati e responsabilizzati.

Rete napoletana contro il razzismo, il neofascismo e il sessismo

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“Extraordinary rendition”, forma di tortura legalizzata nelle mani dell’imperialismo americano: la storia di Khaled el-Masri.

La CIA, con la complicità della Repubblica di Macedonia, ha torturato per 4 mesi un cittadino tedesco sospettato di esser legato ad un’organizzazione terroristica. Lo ha sentenziato la Corte Europea dei Diritti Umani giovedì scorso. La notizia è stata riportata dal quotidiano britannico The Guardian.

Il 31 dicembre 2003 Khaled el-Masri parte in autobus da Ulma, una città della Germania meridionale sulla riva del Danubio. Ha un visto per la Macedonia, di cui intende visitare la capitale, Skopje. È la prima vacanza dopo parecchi mesi, e Khaled è felice, mentre il pullman passa la frontiera con l’Austria; si addormenta sereno. Scende dal bus al confine tra Serbia e Macedonia, nella città frontaliera di Tabanovce, alle 3 del pomeriggio circa. Non ha la minima idea di quello che gli capiterà di lì a qualche ora.

Prima i problemi con il suo passaporto, rilasciato pochi giorni prima. Le frasi di routine: “Quanto tempo si ferma? Quali sono le ragioni del suo soggiorno?”. Poi, il controllo di sicurezza. Le domande insistenti e assurde: “Di quale organizzazione islamica fa parte? el-Masri, lei è un terrorista?”. Il primo interrogatorio finisce 6 ore dopo, alle 10 di sera. Khaled viene scortato da un poliziotto in borghese ad un “hotel”, lo Skopski MerakRimarrà lì dentro 23 giorni.

La Corte ha condannato la Repubblica di Macedonia secondo l’articolo 34 della Convenzione per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali. “In particolare – scrivono i giudici nella sentenza – il testimone ha riportato di essere stato vittima di un’operazione di ‘secret rendition’ [la cattura e la conseguente estradizione effettuata dalla CIA nei confronti di un individuo sospettato di terrorismo, come nel caso dell’Imam milanese Abu Omar, Ndr], vale a dire che gli agenti dello Stato succitato lo hanno arrestato, segregato, interrogato e maltrattato, per poi consegnarlo ad agenti della CIA all’aeroporto di Skopje, che lo hanno trasferito, tramite un volo speciale operato personalmente dall’Agenzia, in unaprigione-bunker della CIA in Afghanistan, dove l’uomo è stato maltrattato ininterrottamente per oltre quattro mesi. Il sequestro-tortura è avvenuto dal 31 dicembre 2003 al 29 maggio 2004″.

La Repubblica dell’Ex Jugoslavia di Macedonia verrà costretta a pagare un’ammenda di 60mila euro, come risarcimento per il trattamento disumano effettuato ai danni di Khaled el-Masri. Una cifra irrisoria per l’incubo che ha vissuto. Durante i ventitré giorni passati all’albergo/prigione Skopski Merak, Khaled è stato interrogato centinaia di volte, giorno e notte, la maggior parte delle quali in inglese, una lingua che l’uomo conosceva appena. Non ha potuto informare nessuno della sua detenzione, ed ogni richiesta di contattare l’ambasciata tedesca è stata rifiutata; in un caso i carcerieri di el-Masri lo hanno persino minacciato di morte, puntandogli una pistola alla tempia.

Ma il peggio, per Khaled, deve ancora arrivare. Dopo 3 settimane di detenzione forzata in mano alle autorità macedoni, el-Masri viene incappucciato, caricato su un furgone e portato all’aeroporto di Skopje. L’uomo sente il rombare degli aeroplani sulla pista, spera che lo stiano finalmente mandando a casa. Non è così. Viene consegnato al “rendition team” della CIA. Khaled el-Masri viene incatenato al muro, pestato e minacciato di morte. Poi, metodicamente,comincia la tortura: sodomia, waterboarding, deprivazione sensoriale. Tutto pur di ottenere informazioni. Ma il cittadino tedesco non parla, semplicemente perché non ha nulla da dire. Viene quindi caricato su un volo militare e spedito in una struttura segreta in Afghanistan. Un loculo buio e sporco di pochi metri quadri dove rimarrà 4 mesi, il tempo necessario affinché la più grande compagnia di intelligence al mondo si renda conto che non è un terrorista, ma un semplice turista con la sfortuna di avere un nome arabo.

Durante la detenzione, in segno di protesta, El-Masri ha condotto a lungo uno sciopero della fame: dopo 37 giorni è stato sottoposto all’ingestione forzata di liquidi, per mezzo di un tubicino di gomma che gli è stato infilato nello stomaco attraverso le narici. «Non ho mai provato un dolore così intenso in tutta la mia vita», ha detto.

Prima di iniziare a far luce sui fatti con una commissione parlamentare d’inchiesta istituita ad hoc dalla Germania (in Italia non siamo stati nemmeno in grado di comporne una per i fatti del g8 di Genova), il caso El-Masri aveva visto l’assoluzione della CIA da parte della giustizia americana.

Nonostante il ricorso dell’American Civil Rights Liberties la Corte Suprema aveva infatti stabilito , con una sentenza choc, che il diritto alla “segretezza dello Stato” supera il diritto del cittadino ad ottenere giustizia.

È la prima volta che la Corte giudica la Central Intelligence Agency colpevole di tortura per una delle sue “operazioni”. Le “extraordinary rendition” erano già state oggetto di condanna da parte del Consiglio d’Europa e dal Parlamento Europeo, che nel febbraio 2007 ha approvato la relazione della commissione d’inchiesta (presieduta dall’eurodeputato italiano Claudio Fava) sui voli effettuati dalla CIA in Europa.

Nel frattempo, mentre l’Unione Europea condanna le azioni degli 007 americani, negli Stati Uniti il giudice militare che presiede il processo contro alcuni dei colpevoli dell’11 settembre ha chiesto e ottenuto che le testimonianze sulle torture che gli imputati subirono nelle prigioni della CIA (simili al compound afghano dov’è stato tenuto prigioniero Khaled el-Masri) vengano coperte dal Segreto di Stato. La richiesta viene direttamente dal governo USA. Questioni di “sicurezza nazionale”, dicono i portavoce della Casa Bianca.

(parte dell’articolo è tratto da agoravox.it)

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ECCO I PUNTI PIU’ SIGNIFICATIVI DELLA RIFORMA FORENSE

Abbiamo realizzato questa breve analisi di quelli che abbiamo ritenuto i punti più significativi della riforma forense, per consentirti di avere una maggiore conoscenza dell’argomento.

Speriamo, in questo modo, anche di stimolare una partecipazione attiva al dibattito, con domande, interventi, commenti personali e qualsiasi considerazione che vorrai condividere con noi tutti.

  • La previsione del rimborso spese per i praticanti, nonché, dopo il primo semestre, la possibile pattuizione di un’indennità o di un compenso commisurato all’effettivo apporto professionale.

Art.41 comma 11: “ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato»(come a dire: facciano pure, loro, tanto sono soldi pubblici) «decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”

Il titolare di uno studio può pagare un obolo al giovane praticante avvocato che sgobba per lui solo dopo il primo semestre. Non è obbligatorio: primi sei mesi gratis, poi è un rimborso facoltativo.

  • Previsione di una specifica competenza dell’avvocato nella consulenza stragiudiziale.

Art.2 comma 6: “Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, e` di competenza degli avvocati.” Viene così previsto che tra le attività riservate in esclusiva agli avvocati vi sono le attività di consulenza legale e assistenza legale stragiudiziale, sempre se la professione sia svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato.

  • Possibilità che l’avvocato costituisca associazioni multidisciplinari, affiancando a sé altri professionisti. 

Art.4 comma 1 e 2: “La professione forense può essere esercitata individualmente o con la partecipazione ad associazioni tra avvocati.”

“Allo scopo di assicurare al cliente prestazioni anche a carattere multidisciplinare, possono partecipare alle associazioni di cui al comma 1, oltre agli iscritti all’albo forense, anche altri liberi professionisti[…]”  Sono ammesse le società tra avvocati, anche di natura multidisciplinare e sono altresì previste società di capitali senza il socio esterno a garanzia dell’autonomia e indipendenza della prestazione professionale.

  • Regolamentazione delle specializzazioni.

Art.9 comma 1,2,3: “E ` riconosciuta agli avvocati la possibilità di ottenere e indicare il titolo di specialista secondo modalità che sono stabilite, nel rispetto delle previsioni del presente articolo, con regolamento adottato dal Ministro della giustizia previo parere del CNF, ai sensi dell’articolo 1.” “Il titolo di specialista si può conseguire all’esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione.” “I percorsi formativi, le cui modalità di svolgimento sono stabilite dal regolamento di cui al comma 1, sono organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, con le quali il CNF e i consigli degli ordini territoriali possono stipulare convenzioni per corsi di alta formazione per il conseguimento del titolo di specialista. All’attuazione del presente comma le università provvedono nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.” Con quest’articolo viene disposta una regolamentazione delle specializzazioni; è anche previsto che l’ordine degli avvocati rilasci un attestato di specializzazione. Sempre meno competenze, più settorializzazioni della professione forense considerata come un pezzo della catena di montaggio al servizio del grande studio.

 

  • Totale libertà circa la determinazione del compenso tra cliente e avvocato.

Art.13 comma 3: “La pattuizione dei compensi è  libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base  all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività , a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione” Tale norma riconferma la riforma degli inizi del 2012, con cui sono state abolite le tariffe forensi. Un chiaro tentativo di liberalizzazione della professione che genera una gara a ribasso circa il compenso dell’avvocato, a discapito della qualità della professione.

  • Formazione continua degli avvocati.

Art.11 comma 3: “Il CNF stabilisce le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento da parte degli iscritti e per la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento a cura degli ordini territoriali, delle associazioni forensi e di terzi, superando l’attuale sistema dei crediti formativi.”

  • Obbligo di iscrizione alla Cassa Forense.

Art.21 comma 8: “L’iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.” E’ questa sicuramente la previsione più significativa: alla luce di tali disposizioni, infatti, non si può essere iscritti all’albo senza essere iscritti alla Cassa Forense.  Di conseguenza, per la permanenza nell’albo, e dunque per l’esercizio della professione Forense, diventano obbligatori tutti i parametri di permanenza all’interno della Cassa, tra cui spicca l’obbligo di versare contributi previdenziali fissi, nonché l’obbligo di conseguire 15.300 euro lordi all’anno di volume d’affari!

  • Obbligo della rappresentanza di genere nella rappresentanza di genere nell’elezione dei Consigli dell’Ordine.

Art.51 comma 2: “Il consiglio distrettuale di disciplina e`composto da membri eletti su base capitaria e democratica, con il rispetto della rappresentanza di genere di cui all’articolo 51 della Costituzione, secondo il regolamento approvato dal CNF. Il numero complessivo dei componenti del consiglio distrettuale e` pari ad un terzo della somma dei componenti dei consigli dell’Ordine del distretto, se necessario approssimata per difetto all’unita`.”

  • Corsi di formazione per l’accesso alla professione.

Art.43 comma 1: “Il tirocinio, oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge.”  I corsi di formazione durante il tirocinio erano, fino ad oggi, facoltativi e spesso alcune sedi anche gratuiti. Ai sensi dell’art 43.1, questi corsi, condizione necessaria per accedere all’esame di Stato, saranno svolti obbligatoriamente e a pagamento presso Università o altre sedi autorizzate: un ulteriore peso economico per i giovani praticanti! 

  • Istituzione dei consigli distrettuali di disciplina, con incompatibilità per garantire la terzietà del giudizio disciplinare.

Art.51 comma 1: “Il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense.” Le sanzioni disciplinari erano irrogate dallo stesso Consiglio dell’Ordine di appartenenza, con evidenti pericoli di favoritismi e scarse garanzie di imparzialità. Sicuramente l’art 51.1, sottraendo al Consiglio dell’Ordine tale potere, garantisce una maggiore indipendenza nei giudizi disciplinari sugli avvocati, affidandoli ad organi esterni.

 

Conclusioni:

Dall’analisi di alcune tra le innovazioni più significative apportate dalla riforma, tanto ampia quanto attesa dall’avvocatura, non possiamo escludere un giudizio positivo su alcune previsioni:  a) Istituzione dei consigli di distrettuali di disciplina, organi esterni ed imparziali cui appartiene il potere decisionale (ex art 51.1);  b) Eliminazione del socio esterno nelle società di capitali.

Tuttavia vogliamo sottolineare che complessivamente questa riforma comporta una selezione all’interno dell’avvocatura, attuata sulla base di criteri meramente reddituali ed economicistici!

La permanenza all’albo è infatti subordinata (mediante la previsione dell’obbligo di iscrizione alla cassa forense) all’avere un reddito professionale netto pari a 10.300,00 euro, e 15.300,00 euro di volume d’affari. E’ evidente che tale riforma rischia di pregiudicare coloro che non raggiungono tali soglie, e dunque soprattutto i giovani avvocati, fino a far ipotizzare il raggiungimento di un paradosso: l’avvocato, che non raggiunge tali soglie, per esercitare la professione, sarà “costretto” a dichiarare di più di ciò che guadagna realmente.

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Mercoledi 19 Dicembre, ore 15, aula 32. NOI GIOVANI GIURISTI: OSTACOLI ED OPPORTUNITA’

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NOI GIOVANI GIURISTI: OSTACOLI ED OPPORTUNITA’


L’accesso alla professione forense e le criticità di una riforma. Parliamone con gli avvocati.

Alla luce dei recenti interventi legislativi, da ultimo le modifiche previste dalla riforma forense (ancora in fase di approvazione), l’accesso alla professione per noi giovani è diventato sempre più difficile.

L’avvocatura si difende dicendo che 230 mila avvocati in tutta Italia (di cui 15 mila nella sola Corte d’Appello di Napoli) sono ormai troppi e che per garantire un’adeguata tutela dei diritti è necessario stabilire dei criteri di selezione per l’accesso alla professione.

E’ tuttavia evidente che i criteri previsti non guardano alle competenze e alla professionalità ma si fondano su logiche meramente economicistiche e reddituali che, in un momento di crisi, ostacolano l’inserimento di noi giovani nel mondo del lavoro.

E’ una giusta rivendicazione o è una scelta che va sempre più nella logica di difesa di interessi “corporativi”?

C’è da chiedersi se la riduzione del numero di avvocati è davvero la risposta alle esigenze di giustizia del nostro ordinamento;
o se una maggiore tutela dei diritti dei cittadini va piuttosto ricercata nella consapevolezza della propria professionalità e del proprio ruolo.

Quale spazio è dato a noi giovani in questo processo di riforma della giustizia italiana?

Ad illustrarci i punti più significativi della riforma forense e a discutere sulle prospettive dell’avvocatura interverranno:

– il Prof. Sergio Moccia, Ordinario di Diritto Penale dell’ Università degli studi di Napoli Federico II

– l’Avv. Maurizio Bianco, consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.

– l’Avv. Alessandro Senatore, responsabile delle relazioni internazionali dell’Ordine degli Avvocati di Napoli.

Invitiamo chiunque sia interessato a partecipare ATTIVAMENTE a questo incontro, che vuole essere un momento di dialogo e di confronto per parlare concretamente del nostro futuro!

Mercoledì 19 dicembre, ore 15.00, Sede di PORTA DI MASSA Facoltà di Giurisprudenza Federico II, aula 32.

COLLETTIVO GIURISPRUDENZA INDIPENDENTE

giurisprudenzaindipendente.noblogs.org

Fb/ Collettivo Giurisprudenza Indipendente.

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Contestato Moretti. Anche Napoli è NO TAV!

Oggi abbiamo disturbato il “Manovratore”. Una nutrita delegazione di studenti delle scuole e delle università si è presentata, in maniera determinata, all’inaugurazione del nuovo prototipo di treno ad alta velocità “Freccia 1000” esposto in pompa magna sul lungomare “liberato” di Napoli.
L’ennesima buffonata organizzata da Ferrovie dello Stato con il patrocinio del Comune di Napoli è sembrata una vera e propria provocazione a fronte di una situazione del trasporto pubblico locale sempre più devastata e che rende praticamente inaccessibile il diritto alla mobilità per tutti i lavoratori, studenti e disoccupati che sono costretti ogni giorno a spostarsi.

Si spendono soldi per allestire passerelle istituzionali, mentre non viene speso un euro per garantire i servizi essenziali.
La presenza dell’a.d. Delle Ferrovie dell Stato Moretti è stata anche l’occasione per esprimere la forte ed incondizionata solidarietà e complicità all’intero movimento NOTAV che, proprio nei giorni scorsi, ha subito l’ennesimo atto repressivo e intimidatorio tramite un vero e proprio teorema che ha inventato accuse pesanti tra arresti, obblighi di dimora e obblighi di firma, per 19 militanti impegnati in questa lotta.Purtroppo non è né l’ultimo né il solo caso di accanimento repressivo: basti pensare alla brutale “gestione” di piazza del 14 novembre o delle ripetute cariche a freddo e indiscriminate nei confronti dei manifestanti che a Livorno contestavano Bersani. Tutto si inquadra in un generale clima fortemente repressivo volto a criminalizzare qualunque espressione della crescente rabbia sociale, di cui le ultime esternazioni della Cancellieri sono un preoccupante sintomo.
In questo contesto il movimento NO TAV, esempio brillante di una lotta determinata, popolare e legittima, diventa molto spesso l’obiettivo privilegiato di questi attacchi, dimostrando allo stesso tempo la capacità di rispondere colpo su colpo, rompendo i tentativi di isolamento e di distinzione tra “ buoni” e “ cattivi”. Proprio oggi i compagni NO TAV sono scesi in piazza nelle strade di Lione per contestare il vertice Monti-Hollande.
Questa mattina il presidio ha urlato con rabbia tutte ciò, pretendendo dall’ufficio stampa di FS, di far entrare una delegazione nel luogo, ovviamente blindato, in cui si teneva l’inaugurazione, con tanto di ricco buffet. La risposta è stata la solita: schieramento di polizia a difendere un evento ”pubblico”, alla faccia della “democrazia partecipata” millantata dal Sindaco in campagna elettorale, totale indifferenza, da parte delle Ferrovie dello Stato nei confronti delle tematiche e delle rivendicazioni portate in piazza. Non ci stupisce quest’atteggiamento da parte di un’azienda che non esitiamo a definire spietata e disposta tutto quando sul piatto della bilancia vengono posti gli interessi economici. Con quali altri aggettivi raccontare la vicenda del ferroviere Antonini? Anch’essa sottolineata dai cori e dagli interventi degli studenti: il “caso” del ferroviere licenziato dopo aver denunciato le gravissime responsabilità di Ferrovie dello Stato nella tragedia di Viareggio, in cui persero la vita 32 persone e rispetto alla quale proprio Moretti è il principale indagato. 
Non saranno indifferenza, intimidazioni e repressione a fermare le nostre lotte e la nostra volontà di smascherare i reali colpevoli della crisi e del peggioramento delle nostre condizioni di vita!
Solidarietà a tutti i compagni colpiti dalla repressione!
Si parte e si torna insieme!
A sarà dura!
Siamo tutti NO TAV!
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Quando il padrone chiama il Governo risponde! Solidarietà ai lavoratori dell’Ilva

Dopo le importanti giornate di lotta che hanno investito l’Ilva di Taranto negli ultimi giorni in queste ore si sta svolgendo a Palazzo Chigi l’incontro tra il premier Monti, il ministro dello sviluppo economico Passera, il ministro dell’ambiente Clini, il ministro del lavoro Fornero, il ministro della salute Balduzzi,  accompagnati dai leader dei sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL) e quello dell’UGL, gli amministratori locali e, dulcis in fundo, la dirigenza dell’Ilva (o, per lo meno, quei pochi che non sono agli arresti domiciliari o latitanti).

Chi altro poteva venire in soccorso a un gruppo dirigente attaccato su tutti i fronti, colpevole di una devastazione ambientale senza precedenti, di una forte repressione in fabbrica, senza nessun rispetto per le minime misure di sicurezza sul lavoro, con a capo uno dei padroni (Emilio Riva) più ricchi e  voraci del paese che da decenni sfrutta i suoi operai senza il minimo scrupolo?
Chi poteva corrergli in soccorso se non il Governo dei cosiddetti “tecnici” che, in maniera del tutto politica, dal giorno del loro insediamento sono impegnati costantemente nello smantellamento dei diritti dei lavoratori, scaricando i costi della crisi sui soliti noti?
Un governo davvero disposto a tutto pur di proteggere e salvaguardare profitti e dividendi dei grandi imprenditori, industriali e banchieri del paese.
Disposto perfino, come sta avvenendo oggi sotto lo sguardo complice dei sindacati confederali e delle amministrazioni locali (Vendola in testa), a emanare un decreto legge “cucito su misura” per padron Riva che gli permetta, nonostante la mobilitazione costante e la forte denuncia degli operai e della popolazione di Taranto, di continuare a produrre, continuare a fare profitti, continuare ad avvelenare la città avviando una “messa a norma” degli impianti che ha tutta l’aria di essere poco più che una riverniciata.
Nello specifico, il decreto di legge permetterà all’Ilva di produrre per i prossimi due anni, avviando, in teoria, le prescrizioni totalmente insufficienti previste dall’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), di fatto scavalcando le ultime ordinanze del gip di sequestro degli impianti.
È necessario, al contrario, che si inchiodino alle loro responsabilità padron Riva, tutto il gruppo dirigente, sindacati confederali, il sindaco, Vendola e tutti quelli che hanno concorso a rendere l’Ilva una fabbrica di morte, devastazione e sfruttamento (poco più di un mese fa l’ennesimo omicidio sul lavoro nello stabilimento di Taranto, di cui è stato vittima il giovane operaio Claudio Marsella).
Questo è possibile solo attraverso la prosecuzione della lotta degli operai, che hanno dimostrato di aver ben chiaro di chi sono le responsabilità, attaccando Governo, azienda e sindacalisti complici, e rivendicando, con estrema determinazione, la difesa del proprio lavoro e della propria salute in maniera autonoma e indipendente dai “falsi amici”.
Anche qui a Napoli, salutando la famiglia dell’operaio ancora disperso dopo il tornado che ha investito lo stabilimento, noi studenti abbiamo voluto esprimere la nostra solidarietà a tutti i lavoratori in lotta dell’Ilva.

Senza lavoro non c’è futuro!
Che i sacrifici li facciano i padroni!

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Solidarietà con i lavoratori Coop

L’ipercoop di Quarto sta per essere ceduto a privati, insieme all’Ipercoop Afragora-Acerra. 

Il trasferimento dovrebbe essere concretizzato con una società mista, controllata al 51% da Unicoop e al 49% dall’impresa che entrerà in possesso di addetti, merci e logistica. In capo alla Unicoop resterà per il momento il marchio, l’attività commerciale sarà affidata all’acquirente.

L’operazione sarà, con molta probabilità, esteso a tutti gli altri punti vendita presenti in campania: Ipercoop di Avellino, e i supermercati di Napoli-Arenaccia e di S.M. Capua Vetere.

Tali operazioni mettono a rischio il futuro dei lavoratori diretti dei vari punti vendita, che temono un peggioramento delle proprie condizioni contrattuali, visto che non è garantita dalla legislazione, nelle ipotesi di cessioni, la continuità del rapporto di lavoro alle stesse condizioni contrattuali preesistenti. Stipendi più bassi, riduzione delle ore di lavoro, prosecuzione del rapporto di lavoro in forma precaria sono i rischi concreti cui andranno in contro i lavoratori nei prossimi mesi.

Se a ciò aggiungiamo la probabilità che l’Unicoop Tirreno lasci la Campania, notizia che circola da qualche giorno, il rischio è la perdita stessa del posto di lavoro, per i lavoratori diretti, più di mille in Campania, oltre ai lavoratori dell’indotto.

Queste sono le ragioni per cui sabato 24 novembre a Quarto, nel punto vendita Ipercoop, le rappresentanze sindacali insieme alla cittadinanza, hanno indetto una prima giornata di sciopero, denunciando il rischio occupazionale per circa 650 lavoratori diretti, oltre a quelli dell’indotto, nel solo paese di Quarto.

Ciò che accade è l’emblema di quello che stiamo vivendo sul piano nazionale: i privati, attraverso acquisti e cessioni, continuano ad arricchirsi,  a scapito dei lavoratori, che rischiano di perdere il proprio posto di lavoro.

Per questo è importante essere vicini ai lavoratori ipercoop, sostenere la loro lotta: significa rimettere al centro il diritto al lavoro, un lavoro dignitoso per tutti!

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ANALISI DELLA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO MONTI – FORNERO (Legge n. 92 del 28 giugno 2012) VOL.3

3. AMMORTIZZATORI SOCIALI

L’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) è la nuova forma di sostegno per lavoratori proposta dal Ministro Fornero, che rivoluzionerà l’attuale sistema degli ammortizzatori sociali, sostituendosi alla indennità di mobilità e alla cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione di attività. Ma cerchiamo di capire cosa cambia guardando gli schemi in basso.

3.1 Attuale sistema
3.1.1 Cassa integrazione guadagni ordinaria
Destinatari:  dipendenti da imprese industriali che siano sospesi dal lavoro o effettuino prestazioni di lavoro a orario ridotto, per contrazione o sospensione dell’attività produttiva per situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o agli operai, ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato.
Importo: 80% della retribuzione globale che sarebbe spettata ai lavoratori nelle ore di lavoro non prestate (comunque non oltre le 40 ore settimanali).
Durata: 3 mesi continuativi. In casi eccezionali tale periodo può essere prorogato trimestralmente fino ad un massimo di 12 mesi.
Tale copertura è l’unica mantenuta dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali.
3.1.2 Cassa integrazione guadagni straordinaria
Destinatari: dipendenti sospesi dal lavoro nelle ipotesi di ristrutturazioni, riorganizzazioni o riconversioni aziendali, e nelle ipotesi di crisi aziendali. Da questa causale è stata “scorporata” la fattispecie di cessazione di attività, a partire dalla L. 291/2004. In sostanza, mentre la crisi aziendale coinvolge l’unità produttiva intesa nella sua interezza, la cessazione di attività è riferibile anche a quelle parti di attività che possono essere singolarmente e autonomamente individuate, pur nell’ambito di una unità produttiva.
Lo scopo di questa fattispecie è ridurre il ricorso alla mobilità dei lavoratori in esubero, salvo che non sia possibile ricollocare, anche parzialmente, i lavoratori al termine del periodo di fruizione. Ed è proprio quest’ultima fattispecie ad essere soppressa con il nuovo sistema.
Importo: 80% della retribuzione che sarebbe spettata ai dipendenti nelle ore di lavoro non prestate (comunque non oltre le 40 ore settimanali).
Durata: 2 anni, prorogabile per due volte (per la durata di 12 mesi per ciascuna proroga). Può avere quindi una durata complessiva di 48 mesi. La durata per crisi aziendale non può essere superiore a 12 mesi, e una nuova erogazione per la medesima causale può essere disposta solo con il decorso di un periodo pari a due terzi di quello relativo alla precedente concessione.
La CIGS trova applicazione nelle imprese che nel semestre antecedente alla presentazione della domanda, abbiano occupato mediamente più di 15 dipendenti (art 1 l. 223/1991). Rientrano nel calcolo gli apprendisti, i lavoratori a domicilio, gli assunti con contratto a tempo determinato, o quelli a tempo parziale.
3.1.3 Cassa integrazione in deroga
Esteso alle imprese che non presentano i requisiti richiesti per l’accesso alla cassa integrazione straordinaria. La disciplina è la stessa in quanto a importo e durata.
3.1.4 Indennità di mobilità
Destinatari: lavoratori disoccupati in conseguenza di licenziamenti collettivi a norma degli articoli 4 e 24 della L. 223/1991. Più precisamente:

nelle ipotesi in cui l’impresa ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, al termine del periodo di fruizione, ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi;

nelle ipotesi in cui imprese, con più di 15 dipendenti, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio della stessa provincia. In quest’ultima ipotesi il lavoratore deve far valere una anzianità aziendale di almeno 12 mesi.

Importo: 80% della retribuzione per i primi 12 mesi, riduzione al 60% nei periodi successivi.
Durata:
12 mesi per i lavoratori fino a 39 anni al Centro-Nord (24 mesi per il Sud).
24 mesi per i lavoratori fino a 49 anni al Centro-Nord (36 mesi per il Sud).
36 mesi per i lavoratori di oltre 50 anni al Centro-Nord (48 mesi per il Sud).
L’indennità di mobilità sarà gradualmente ridotta, fino ad essere interamente soppressa nel 2017.

3.2 Aspi (assicurazione sociale per l’impiego).
Destinatari: Tutti i lavoratori disoccupati con almeno 52 settimane di contribuzione nell’arco dell’ultimo biennio.
Importo: 75% della MEDIA RETRIBUTIVA DEGLI ULTIMI DUE ANNI, ridotto del 15% dopo i primi 6 mesi, ulteriormente decurtato del 15% dopo  il dodicesimo mese.
Durata:
12 mesi  per lavoratori fino a 55 anni.
18 mesi per lavoratori con più di 55 anni.
Il nuovo sistema è modellato sulla figura delle assicurazioni automatiche, la cui indennità cioè, è riconosciuta automaticamente al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (in questo caso la perdita involontaria del posto di lavoro), e i cui contenuti sono determinati dalla legge.

In base a quanto esaminato fino ad ora possiamo sviluppare delle prime considerazioni.

Anzitutto il nuovo sistema comporta una drastica riduzione della protezione sia per quanto riguarda l’importo che la durata. I lavoratori possono godere di un solo anno di copertura (massimo 1 anno e mezzo per gli over 55), mentre ad esempio nel precedente sistema i lavoratori che godevano dell’indennità di mobilità provenivano per la gran parte da un periodo di fruizione della cassa integrazione straordinaria,  con una copertura quindi di 60 mesi (e oltre per i lavoratori con più di 40 anni).

Sono esclusi  da questa forma di sostegno i co.co.pro, collaboratori a chiamata e co.co.co statali, che rappresentano una larga percentuale dei lavoratori italiani.

Nell’attuale sistema, inoltre, il sostegno a coloro che hanno perso il posto di lavoro non si limita alla sola fruizione dell’indennità di mobilità, ma anche ad una serie benefici, connessi all’iscrizione nelle liste di mobilità, volti a garantire il reimpiego del lavoratore. Tali benefici sono riassunti nell’art 8 della l.223/1991 tra cui ricordiamo il diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate entro un anno dall’azienda di provenienza; partecipazione a corsi di formazione e riqualificazione; benefici economici per le imprese che assumano lavoratori iscritti il liste di mobilità. Insomma, nel primo anno di disoccupazione il lavoratore è ancora in qualche modo legato al posto di lavoro precedente, e nel periodo successivo lo Stato si fa carico di tale stato di disoccupazione, con interventi di natura fiscale e previdenziale, per permettere un più tempestivo reimpiego dei lavoratori in esubero. L’art 8 sarà abrogato nel 2016, e mancando nel nuovo sistema forme di intervento simili a queste, l’effetto sarà quello di isolare i lavoratori disoccupati, sganciati dall’azienda di provenienza e dal mercato del lavoro in genere.
Altra considerazione importante da fare riguarda le cause di decadenza dal diritto di beneficiale di tale sostegno. Nell’attuale sistema il lavoratore decade dall’indennità ed è cancellato dalla lista di mobilità quando (tra le varie cause) non accetti un offerta di lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore al 10% rispetto a quello delle mansioni di provenienza.
L’art 62 della riforma, invece, prevede che il lavoratore decada da ogni trattamento qualora non accetti un offerta di lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore al 20% rispetto all’importo lordo non della retribuzione precedente, ma dell’indennità.  Facciamo due calcoli sull’ipotesi di un lavoratore licenziato, con più di 55 anni, che percepiva una retribuzione pari a mille euro al mese: l’importo dell’indennità è pari al 75% della retribuzione (€ 750,00), a cui si applica una riduzione del 15% dopo i primi 6 mesi (€ 637,50), e un ulteriore 15%  dopo i primi 12 mesi di fruizione (€542,00). In tale ipotesi il lavoratore decadrà dal trattamento qualora non accetti un impiego per una retribuzione pari a € 433,60 lordi!
Tali considerazioni si evincono dalla semplice lettura del DDL Fornero, ma proviamo ora ad azzardare un esame più approfondito della riforma degli ammortizzatori sociali, guardando anche al significato politico degli stessi.
Quello degli ammortizzatori sociali, in Italia, è un sistema complesso, frutto di stratificazioni di strumenti nel corso dei decenni, e questo a causa soprattutto del fatto che si è preferito per anni intervenire con deroghe e lievi riforme, senza mai toccare il cuore del sistema. La riforma degli ammortizzatori sociali era (ed è) necessaria, e tra gli obbiettivi del DDL Fornero vi è appunto questo: riordinare il quadro degli strumenti volti ad attutire gli effetti della sospensione o della cessazione di un rapporto di lavoro.
Ma ora guardiamo al risultato: un assicurazione (di importo e durata minimi) riconosciuti ai soli lavoratori che hanno perso involontariamente il posto di lavoro, mentre per coloro che sono stati sospesi, gli strumenti di sostegno restano gli stessi, ossia le varie forme della cassa integrazione. Tre strumenti su quattro restano in vigore e la riforma semplifica ben poco del sistema attuale.
Ma qual è allora lo scopo della riforma degli ammortizzatori sociali? Fornire un reddito minimo ai disoccupati. “La questione del reddito minimo è un problema di cittadinanza” ha affermato la stessa Fornero nel dicembre 2011, dichiarandosi personalmente favorevole al reddito garantito. Proviamo però a guardare oltre tali affermazioni propagandistiche: con la modifica della norma sui licenziamenti, resi più semplici, milioni saranno i posti di lavoro a rischio ed è chiaro che il reddito minimo diventa una soluzione quasi obbligatoria.
Il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali si ricollega non solo ai licenziamenti facili, ma anche alla riforma delle pensioni. L’aumento dell’età pensionabile comporterebbe l’obbligo per le imprese di tenere dipendenti fino a 65/67 anni, ovviamente meno produttivi di un trentenne. Ecco che interviene allora il nuovo art 18, che rende i licenziamenti individuali più liberi perché qual’ora si accerti l’esistenza di licenziamenti privi di fondamenti giustificativi, la sanzione non è più il reintegro (ecco ancora il legame tra lavoratore e il posto di lavoro) ma una semplice indennità. Intanto al lavoratore disoccupato è riconosciuto un solo anno di copertura, senza alcun tipo di intervento statali che garantiscano il reimpiego dello stesso.
Insomma il mercato del lavoro, cosi come concepito mette a rischio milioni di posti di lavoro, soprattutto delle fasce di lavoratori più anziani, e inevitabile è un nuovo sistema di ammortizzatore sociale che:

Ridimensioni la portata economica della copertura;

“alleggerisca” il peso dei disoccupati, eliminando ogni intervento diretto dello Stato volti a favorire il reinserimento degli stessi nel mercato del lavoro.

E l’aspi, come abbiamo visto, risponde perfettamente a queste esigenze.

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ANALISI DELLA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO MONTI – FORNERO (Legge n. 92 del 28 giugno 2012) VOL.2

2. ANALISI DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

Si chiama licenziamento individuale il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro quando detto recesso riguarda un massimo di quattro lavoratori in centoventi giorni.

2.1 FATTISPECIE DI LICENZIAMENTO:
2.1.1 LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
E’ comunemente definito licenziamento discriminatorio l’insieme delle fattispecie nelle quali il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro avviene per causa di matrimonio o gravidanza ex art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n°903, per ritorsione o per ragioni di appartenenza ad un sindacato, credo politico, religione, razza, lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali ex art. 4 della legge 15 luglio 1966, n°604.
Il giudice, qualora riscontri una delle possibili violazioni sopra elencate, dichiara la nullità del licenziamento ed in tal caso si applica la tutela reale: il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
Inoltre, il giudice, secondo la disciplina della tutela reale che riafferma la continuità del vincolo contrattuale, condanna il datore di lavoro anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo, stabilendo un’indennità  pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito nello stesso arco di tempo per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso il risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità ed il datore di lavoro deve corrispondere anche i contributi previdenziali ed assistenziali.
Dopo l’ordinanza di reintegrazione, se il lavoratore non riprende servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, il rapporto tra i due si ritiene risolto.
Il lavoratore, qualora lo ritenga opportuno, ha facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, un’indennità pari a quindici mensilità, esente da contribuzione previdenziale (specificazione introdotta per la prima volta in maniera esplicita nel testo della riforma Fornero);  contestualmente il rapporto si risolve. La richiesta deve essere effettuata entro 30 giorni dal deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore al deposito.

Elementi di novità :

l’espressa deducibilità dall’indennità risarcitoria di quanto percepito in altre attività lavorative , cosa che prima avveniva comunque, ma solo a livello giurisprudenziale (v. Cass. S.U. 03/02/1998, n°1099; Cass. 13/07/2002, n°10203).

forma espressa dell’esenzione da contribuzione previdenziale dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Molto spesso si sente dire, non senza malizia, che l’esiguità del numero di casi giurisprudenziali in cui è stato appurato il carattere discriminatorio del licenziamento sarebbe dovuta al fatto che la norma, per una presunta ingenuità o malafede del legislatore, si aspetterebbe di riscontrare nella motivazione formale del licenziamento la ragione discriminatoria, che è come dire che ci si aspetterebbe un’autodenuncia da parte del datore di lavoro in malafede. Questa tesi è facilmente confutabile con la semplice lettura integrale della norma che letteralmente dice “indipendentemente dalla motivazione formalmente addotta”.
E’, invece,  l’onere della prova a rivelarsi in questa circostanza particolarmente gravoso da sopportare per il lavoratore e a tale proposito sarebbe, infatti, opportuno un intervento legislativo che fornisca al lavoratore-attore strumenti efficaci ad assicurargli un pieno esercizio del diritto di azione ex art. 24 Cost.

2.1.2 LICENZIAMENTO c.d. DISCIPLINARE

E’ comunemente definito licenziamento disciplinare l’insieme delle fattispecie nelle quali il recesso dal rapporto di lavoro del datore di lavoro è determinato, secondo la gravità crescente del notevole inadempimento del lavoratore, o da un giustificato motivo soggettivo o da una giusta causa.
Qualora venga accertata la ingiustificatezza del licenziamento, seguirà la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nelle due sole ipotesi di ingiustificatezza qualificata :

insussistenza del fatto contestato (il fatto contestato non è mai avvenuto).

il fatto contestato sussiste, ma rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa del rapporto di lavoro in base a quanto previsto dai contratti collettivi o dai codici disciplinari applicabili.

Si registra, dunque, un sostanziale ridimensionamento della fattispecie reintegrativa in quanto le ipotesi di ingiustificatezza macroscopica, sopra indicate, presuppongono una situazione di “torto marcio” del datore di lavoro che si prospetta solo quando questi abbia resistito in giudizio in mala fede  o con colpa grave, cioè nella consapevolezza del torto.
L’indennità risarcitoria che si accompagna alla reintegrazione sarebbe commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, ma è stato introdotto un tetto massimo di dodici mensilità ed è inoltre deducibile sia quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
A seguito dell’ordine di reintegrazione, se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, il rapporto si intende risolto, salvo che il lavoratore abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Salvo dunque le due eccezioni sopra indicate, la disciplina normale di tutela del lavoratore contro la ingiustificatezza (questa volta semplice) del licenziamento disciplinare prevede che il giudice dichiari comunque risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, in base all’anzianità del lavoratore, al numero degli occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
Elementi di novità:

la riduzione ad eccezionale dell’applicabilità della reintegrazione.

la deducibilità di ciò che il lavoratore avrebbe percepito dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Sorge spontaneo chiedersi quali saranno  le modalità con cui si andrà ad individuare il quantum che il lavoratore avrebbe percepito in questa seconda e “virtuosa” circostanza.

l’eliminazione della penale minima di cinque mensilità, prevista dalla precedente disciplina, per l’indennità risarcitoria.

il carattere onnicomprensivo del risarcimento esclude che possano essere considerati da risarcire danni non patrimoniali (ex art. 2046 c.c. sulla responsabilità extracontrattuale).
2.1.3 LICENZIAMENTO c.d. ECONOMICO
Il termine giuridico corretto è quello di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che indica il recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n°604.
Qualora il lavoratore impugni il licenziamento e ne venga accertata l’illegittimità, potranno seguire due ipotesi distinte:

La prima, eccezionale, è anche qui quella dell’ingiustificatezza qualificata, requisito che si intende soddisfatto esclusivamente in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.  Come lo stesso presidente Monti ha affermato, rassicurando la Confindustria: “La reintegrazione diviene un evento estremo ed improbabile”.

Inoltre, l’extrema ratio della reintegrazione è affidata ad un duplice, concorrente vaglio giudiziale: la soddisfazione del requisito della manifesta insussistenza e  la decisione equitativa del giudice nel senso della tutela reale.  Il testo normativo, infatti, recita: “il giudice può(non deve) applicare la disciplina”. A tal proposito è opportuno notare che è davvero singolare l’utilizzo del verbo “può” in relazione all’applicabilità di una sanzione e che il giudizio, in questo modo, si forma non più  o non solo secondo diritto, ma secondo equità, stravolgendo il principio di certezza del diritto e rendendo inappellabili le sentenze per la parte in cui sono frutto di un convincimento potestativo. E’ possibile dunque che anche qualora venga accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, il giudice possa non ordinare la reintegrazione  e per due casi analoghi potrebbe in uno aversi il ricorso alla tutela reale e non nell’altro il che dimostra l’irrazionalità della norma e costituisce almeno una pregiudiziale di incostituzionalità rispetto all’art. 3 Cost. primo comma sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e rispetto all’art. 111 Cost. sul giusto processo, in quanto attribuendo una facoltà potestativa al giudice, la sentenza diviene non impugnabile sotto questo profilo e si configura una sostanziale lesione del diritto al doppio grado di giudizio.

 

La seconda, ordinaria, è quella della ingiustificatezza semplice che comporta la conferma della risoluzione del rapporto e la condanna del datore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto. Anche qui il carattere onnicomprensivo dell’indennità esclude automaticamente che possano essere risarciti danni non patrimoniali ( ex art. 2046 c.c. sulla responsabilità extracontrattuale).

 

Specificazioni sul divieto di controllo di merito da parte del giudice e sulla titolarità dell’onere della prova.

 

Per quanto riguarda il primo punto è esplicitamente escluso dalla norma che il giudice possa operare un controllo di merito nell’accertamento della sussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento. Al contrario, suo compito è accertare l’effettività della scelta organizzativa e del nesso causale che lega questa con il licenziamento, cos’ che l’evento risolutivo sia logicamente, automaticamente consequenziale ed inevitabile.

Per quanto concerne il secondo punto è opportuno chiarire che la prova della giustificatezza del licenziamento pende sempre in campo al datore di lavoro (ex art. 5 della legge 15 luglio 1966, n°604), ma, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, la prova della manifesta insussistenza è a carico del lavoratore.

2.2 LICENZIAMENTO INEFFICACE PER VIOLAZIONE DEI REQUISITI FORMALI O PROCEDURALI

L’art. 2 primo comma della legge 15 luglio 1966, n°604 prevede l’obbligatorietà della forma scritta per il licenziamento in quanto negozio unilaterale recettizio. Qualora questa dovesse mancare, si applica la tutela reale così come strutturata per il licenziamento discriminatorio, salva la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare in forma scritta, con efficacia ex nunc, il licenziamento viziato nella forma.

 

Lo stesso art. 2 secondo comma della legge 15 luglio 1966, n°604 prevedeva un differimento tra la comunicazione del licenziamento e quella dei motivi che lo hanno determinato; la riforma Fornero ha introdotto l’obbligo di motivazione contestuale all’atto della comunicazione del licenziamento e l’eventuale violazione di quest’obbligo comporta l’inefficacia del licenziamento. Bisogna, però, chiarire che la disciplina attuale, come del resto la precedente, assimila il regime dell’inefficacia a quello dell’annullabilità, riconoscendo l’esecutività provvisoria del recesso (inefficace). In giudizio il lavoratore potrà domandare esclusivamente un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di sei e un massimo di 12 mensilità;

 

un regime analogo è previsto per la violazione degli obblighi procedimentali che regolano il potere disciplinare del datore di lavoro ex art. 7 della legge 20 maggio 1970 n°300, di cui il licenziamento disciplinare rappresenta l’esercizio massimo ed ancora per la violazione dell’obbligo del tentativo di conciliazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 7 della legge 15 luglio 1966. n°604.

2.3 MODIFICHE  SUI PROFILI GENERALI DELLA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE APPORTATE DALLA RIFORMA FORNERO

Nel 2010 il governo Berlusconi approva il c.d. collegato lavoro . L’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n°183, modificava l’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n°604, introducendo, a pena di decadenza,  un termine d’impugnazione di sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento .

Era poi previsto, a pena d’inefficacia dell’impugnazione, un secondo termine di duecentosessanta giorni entro il quale il lavoratore doveva depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro. Con la riforma Fornero questo secondo termine è stato ridotto a centottanta giorni ed, a tal proposito, è opportuno ricordare le preoccupazioni che la gran parte della dottrina aveva già manifestato circa l’integrità del diritto di azione del lavoratore all’epoca del collegato lavoro.

 

L’esperimento del tentativo di conciliazione, già obbligatorio per il campo escluso dalla applicazione dell’ art. 35 della legge 20 maggio 1970, n°300, e disciplinato dall’ art. 7 della legge 15 luglio 1966 n°604 diviene adesso obbligatorio anche per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mentre resta una mera facoltà delle parti nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Secondo parte della dottrina questa scelta legislativa sarebbe dovuta all’incertezza applicativa del nuovo regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato:  il legislatore, cosciente di ciò, avrebbe così preferito ridurre il più possibile tale circostanza. Questa ipotesi interpretativa, avanzata dalla dottrina, è ulteriormente confortata in questa direzione dalla previsione di un rito speciale con fase sommaria e poi accelerato in tutti i suoi gradi per raggiungere il prima possibile l’accertamento definitivo.

 

la soppressione della esecutività provvisoria della sentenza (ex art. 282 c.p.c.) rende più incerta la situazione del lavoratore,  nonostante la richiesta di quest’ultimo abbia trovato un iniziale accoglimento. L’esecutività provvisoria, infatti, consiste nell’idoneità a produrre effetti di una sentenza che non dovrebbe averla, cioè una sentenza non passata in giudicato; la ratio dell’istituto mira ad assecondare, seppure provvisoriamente, la richiesta dell’attore quando la posizione di quest’ultimo sia rafforzata da una sentenza di primo grado.

 

Il problema dell’incertezza e della durata del giudizio gravano adesso ulteriormente sul lavoratore il quale potrebbe conseguire una tutela solo indennitaria o una tutela reale con  soglia risarcitoria  massima di dodici mensilità fino al provvedimento di reintegro.

 

Si sente spesso dire che l’onere della prova posto a carico del datore di lavoro ex art.5 della legge 15 luglio 1966, n°604 , sia stato invertito a scapito del lavoratore. In realtà il meccanismo è più complesso rispetto ad una semplice inversione dell’onere della prova. Prima della riforma, qualora fosse stato impugnato un licenziamento individuale nell’ambito di applicazione dello Statuto dei Lavoratori ex art. 35 dello stesso, il giudice aveva dinanzi a se due possibilità: accertare la giustificatezza del licenziamento o accogliere la domanda del lavoratore-attore e applicare la tutela reale con la reintegrazione.

 

Adesso, invece, le possibilità diventano tre:

la giustificatezza del licenziamento per la quale l’onere della prova è a carico del datore di lavoro.

l’ingiustificatezza semplice, che non prevede la reintegrazione, è deducibile logicamente qualora il datore di lavoro non sia in grado di provare la legittimità del suo atto risolutivo.

l’ingiustificatezza qualificata. Il lavoratore dovrà provare i fatti costitutivi di questa ipotesi qualificata per avere accesso alla reintegrazione.

 

Resta invariato il campo di applicazione dello Statuto dei Lavoratori,  mantenendo così intatta la profonda biforcazione che divide il mercato del lavoro (aziende con meno/più di 15 dipendenti, ex art.35 della legge 20 maggio del 1970, n°300), nonostante, ab immemorabili, ambienti tecnici per eccellenza, quali il mondo accademico e quello giurisprudenziale, auspichino un intervento risolutivo in tal senso.

 

Resta altresì invariata la previsione di limiti solamente procedurali per i licenziamenti collettivi (si può discutere del ‘chi’ ma mai del ‘sé’).

 

ALCUNI CHIARIMENTI SULL’ART. 18.

L’articolo 18 dello statuto del Lavoratori è stato l’aspetto più critico della Riforma. Durante l’iter di formazione e approvazione della riforma, ci hanno detto che era necessaria una modifica della disciplina dei licenziamenti individuali perché la disciplina originaria rendeva impossibile licenziare i lavoratori nelle medie e grandi imprese. Ma qualcosa non quadra.
L’esigenza della nostra classe politica imprenditoriale è quella di rendere più semplice i licenziamenti individuali, ma ad essere riformato non è la regola e il meccanismo del licenziamento, bensì la sanzione prevista per i licenziamenti “per motivi economici” illegittimi.
L’articolo 18 dello statuto dei Lavoratori disciplina, infatti, come abbiamo visto, la sanzione in caso di licenziamenti individuali illegittimi, per le aziende con più di 15 dipendenti, prevedendo, nel suo testo originario il reintegro del lavoratore. Nella nuova formulazione si sostituisce al reintegro una semplice indennità.
Lo ribadiamo per essere chiari: la riforma non rende più agevoli i licenziamenti individuali, perché la regola resta la stessa (gli imprenditori dispongono ora degli STESSI strumenti di cui disponevano prima per licenziare) … ma è reso più agevole il licenziamento “per motivi economici” illegittimo.
Qual è quindi la finalità della modifica dell’art 18? Proviamo a rispondere a questa domanda chiarendo che il reintegro era una forte tutela riconosciuta ai lavoratori contro i licenziamenti effettuati dal datore di lavoro per motivi politici e sindacali (appunto illegittimi).
È evidente la finalità politica e ideologica di tale modifica: consentire agli imprenditori di liberarsi più liberamente di lavoratori “scomodi”, perché accertata l’illegittimità del licenziamento, non si ha l’obbligo di reintegrarlo nel posto di lavoro, ma solo di pagare un indennità pari a 12 mensilità (che per le grandi aziende non comporta eccessive difficoltà in termini economici).
Insomma, l’effetto è quello di spostare l’asticella dei rapporti di forza tra le classi, a vantaggio della borghesia imprenditoriale. Indebolisce la classe lavoratrice, rendendola più ricattabile!

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