2. ANALISI DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI LICENZIAMENTO INDIVIDUALE
Si chiama licenziamento individuale il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro quando detto recesso riguarda un massimo di quattro lavoratori in centoventi giorni.
2.1 FATTISPECIE DI LICENZIAMENTO:
2.1.1 LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
E’ comunemente definito licenziamento discriminatorio l’insieme delle fattispecie nelle quali il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro avviene per causa di matrimonio o gravidanza ex art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n°903, per ritorsione o per ragioni di appartenenza ad un sindacato, credo politico, religione, razza, lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali ex art. 4 della legge 15 luglio 1966, n°604.
Il giudice, qualora riscontri una delle possibili violazioni sopra elencate, dichiara la nullità del licenziamento ed in tal caso si applica la tutela reale: il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
Inoltre, il giudice, secondo la disciplina della tutela reale che riafferma la continuità del vincolo contrattuale, condanna il datore di lavoro anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo, stabilendo un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito nello stesso arco di tempo per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso il risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità ed il datore di lavoro deve corrispondere anche i contributi previdenziali ed assistenziali.
Dopo l’ordinanza di reintegrazione, se il lavoratore non riprende servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, il rapporto tra i due si ritiene risolto.
Il lavoratore, qualora lo ritenga opportuno, ha facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, un’indennità pari a quindici mensilità, esente da contribuzione previdenziale (specificazione introdotta per la prima volta in maniera esplicita nel testo della riforma Fornero); contestualmente il rapporto si risolve. La richiesta deve essere effettuata entro 30 giorni dal deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore al deposito.
Elementi di novità :
l’espressa deducibilità dall’indennità risarcitoria di quanto percepito in altre attività lavorative , cosa che prima avveniva comunque, ma solo a livello giurisprudenziale (v. Cass. S.U. 03/02/1998, n°1099; Cass. 13/07/2002, n°10203).
forma espressa dell’esenzione da contribuzione previdenziale dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Molto spesso si sente dire, non senza malizia, che l’esiguità del numero di casi giurisprudenziali in cui è stato appurato il carattere discriminatorio del licenziamento sarebbe dovuta al fatto che la norma, per una presunta ingenuità o malafede del legislatore, si aspetterebbe di riscontrare nella motivazione formale del licenziamento la ragione discriminatoria, che è come dire che ci si aspetterebbe un’autodenuncia da parte del datore di lavoro in malafede. Questa tesi è facilmente confutabile con la semplice lettura integrale della norma che letteralmente dice “indipendentemente dalla motivazione formalmente addotta”.
E’, invece, l’onere della prova a rivelarsi in questa circostanza particolarmente gravoso da sopportare per il lavoratore e a tale proposito sarebbe, infatti, opportuno un intervento legislativo che fornisca al lavoratore-attore strumenti efficaci ad assicurargli un pieno esercizio del diritto di azione ex art. 24 Cost.
2.1.2 LICENZIAMENTO c.d. DISCIPLINARE
E’ comunemente definito licenziamento disciplinare l’insieme delle fattispecie nelle quali il recesso dal rapporto di lavoro del datore di lavoro è determinato, secondo la gravità crescente del notevole inadempimento del lavoratore, o da un giustificato motivo soggettivo o da una giusta causa.
Qualora venga accertata la ingiustificatezza del licenziamento, seguirà la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nelle due sole ipotesi di ingiustificatezza qualificata :
insussistenza del fatto contestato (il fatto contestato non è mai avvenuto).
il fatto contestato sussiste, ma rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa del rapporto di lavoro in base a quanto previsto dai contratti collettivi o dai codici disciplinari applicabili.
Si registra, dunque, un sostanziale ridimensionamento della fattispecie reintegrativa in quanto le ipotesi di ingiustificatezza macroscopica, sopra indicate, presuppongono una situazione di “torto marcio” del datore di lavoro che si prospetta solo quando questi abbia resistito in giudizio in mala fede o con colpa grave, cioè nella consapevolezza del torto.
L’indennità risarcitoria che si accompagna alla reintegrazione sarebbe commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, ma è stato introdotto un tetto massimo di dodici mensilità ed è inoltre deducibile sia quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
A seguito dell’ordine di reintegrazione, se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, il rapporto si intende risolto, salvo che il lavoratore abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Salvo dunque le due eccezioni sopra indicate, la disciplina normale di tutela del lavoratore contro la ingiustificatezza (questa volta semplice) del licenziamento disciplinare prevede che il giudice dichiari comunque risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, in base all’anzianità del lavoratore, al numero degli occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
Elementi di novità:
la riduzione ad eccezionale dell’applicabilità della reintegrazione.
la deducibilità di ciò che il lavoratore avrebbe percepito dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Sorge spontaneo chiedersi quali saranno le modalità con cui si andrà ad individuare il quantum che il lavoratore avrebbe percepito in questa seconda e “virtuosa” circostanza.
l’eliminazione della penale minima di cinque mensilità, prevista dalla precedente disciplina, per l’indennità risarcitoria.
il carattere onnicomprensivo del risarcimento esclude che possano essere considerati da risarcire danni non patrimoniali (ex art. 2046 c.c. sulla responsabilità extracontrattuale).
2.1.3 LICENZIAMENTO c.d. ECONOMICO
Il termine giuridico corretto è quello di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che indica il recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n°604.
Qualora il lavoratore impugni il licenziamento e ne venga accertata l’illegittimità, potranno seguire due ipotesi distinte:
La prima, eccezionale, è anche qui quella dell’ingiustificatezza qualificata, requisito che si intende soddisfatto esclusivamente in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento. Come lo stesso presidente Monti ha affermato, rassicurando la Confindustria: “La reintegrazione diviene un evento estremo ed improbabile”.
Inoltre, l’extrema ratio della reintegrazione è affidata ad un duplice, concorrente vaglio giudiziale: la soddisfazione del requisito della manifesta insussistenza e la decisione equitativa del giudice nel senso della tutela reale. Il testo normativo, infatti, recita: “il giudice può(non deve) applicare la disciplina”. A tal proposito è opportuno notare che è davvero singolare l’utilizzo del verbo “può” in relazione all’applicabilità di una sanzione e che il giudizio, in questo modo, si forma non più o non solo secondo diritto, ma secondo equità, stravolgendo il principio di certezza del diritto e rendendo inappellabili le sentenze per la parte in cui sono frutto di un convincimento potestativo. E’ possibile dunque che anche qualora venga accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, il giudice possa non ordinare la reintegrazione e per due casi analoghi potrebbe in uno aversi il ricorso alla tutela reale e non nell’altro il che dimostra l’irrazionalità della norma e costituisce almeno una pregiudiziale di incostituzionalità rispetto all’art. 3 Cost. primo comma sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e rispetto all’art. 111 Cost. sul giusto processo, in quanto attribuendo una facoltà potestativa al giudice, la sentenza diviene non impugnabile sotto questo profilo e si configura una sostanziale lesione del diritto al doppio grado di giudizio.
La seconda, ordinaria, è quella della ingiustificatezza semplice che comporta la conferma della risoluzione del rapporto e la condanna del datore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto. Anche qui il carattere onnicomprensivo dell’indennità esclude automaticamente che possano essere risarciti danni non patrimoniali ( ex art. 2046 c.c. sulla responsabilità extracontrattuale).
Specificazioni sul divieto di controllo di merito da parte del giudice e sulla titolarità dell’onere della prova.
Per quanto riguarda il primo punto è esplicitamente escluso dalla norma che il giudice possa operare un controllo di merito nell’accertamento della sussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento. Al contrario, suo compito è accertare l’effettività della scelta organizzativa e del nesso causale che lega questa con il licenziamento, cos’ che l’evento risolutivo sia logicamente, automaticamente consequenziale ed inevitabile.
Per quanto concerne il secondo punto è opportuno chiarire che la prova della giustificatezza del licenziamento pende sempre in campo al datore di lavoro (ex art. 5 della legge 15 luglio 1966, n°604), ma, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, la prova della manifesta insussistenza è a carico del lavoratore.
2.2 LICENZIAMENTO INEFFICACE PER VIOLAZIONE DEI REQUISITI FORMALI O PROCEDURALI
L’art. 2 primo comma della legge 15 luglio 1966, n°604 prevede l’obbligatorietà della forma scritta per il licenziamento in quanto negozio unilaterale recettizio. Qualora questa dovesse mancare, si applica la tutela reale così come strutturata per il licenziamento discriminatorio, salva la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare in forma scritta, con efficacia ex nunc, il licenziamento viziato nella forma.
Lo stesso art. 2 secondo comma della legge 15 luglio 1966, n°604 prevedeva un differimento tra la comunicazione del licenziamento e quella dei motivi che lo hanno determinato; la riforma Fornero ha introdotto l’obbligo di motivazione contestuale all’atto della comunicazione del licenziamento e l’eventuale violazione di quest’obbligo comporta l’inefficacia del licenziamento. Bisogna, però, chiarire che la disciplina attuale, come del resto la precedente, assimila il regime dell’inefficacia a quello dell’annullabilità, riconoscendo l’esecutività provvisoria del recesso (inefficace). In giudizio il lavoratore potrà domandare esclusivamente un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di sei e un massimo di 12 mensilità;
un regime analogo è previsto per la violazione degli obblighi procedimentali che regolano il potere disciplinare del datore di lavoro ex art. 7 della legge 20 maggio 1970 n°300, di cui il licenziamento disciplinare rappresenta l’esercizio massimo ed ancora per la violazione dell’obbligo del tentativo di conciliazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 7 della legge 15 luglio 1966. n°604.
2.3 MODIFICHE SUI PROFILI GENERALI DELLA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE APPORTATE DALLA RIFORMA FORNERO
Nel 2010 il governo Berlusconi approva il c.d. collegato lavoro . L’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n°183, modificava l’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n°604, introducendo, a pena di decadenza, un termine d’impugnazione di sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento .
Era poi previsto, a pena d’inefficacia dell’impugnazione, un secondo termine di duecentosessanta giorni entro il quale il lavoratore doveva depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro. Con la riforma Fornero questo secondo termine è stato ridotto a centottanta giorni ed, a tal proposito, è opportuno ricordare le preoccupazioni che la gran parte della dottrina aveva già manifestato circa l’integrità del diritto di azione del lavoratore all’epoca del collegato lavoro.
L’esperimento del tentativo di conciliazione, già obbligatorio per il campo escluso dalla applicazione dell’ art. 35 della legge 20 maggio 1970, n°300, e disciplinato dall’ art. 7 della legge 15 luglio 1966 n°604 diviene adesso obbligatorio anche per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mentre resta una mera facoltà delle parti nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Secondo parte della dottrina questa scelta legislativa sarebbe dovuta all’incertezza applicativa del nuovo regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato: il legislatore, cosciente di ciò, avrebbe così preferito ridurre il più possibile tale circostanza. Questa ipotesi interpretativa, avanzata dalla dottrina, è ulteriormente confortata in questa direzione dalla previsione di un rito speciale con fase sommaria e poi accelerato in tutti i suoi gradi per raggiungere il prima possibile l’accertamento definitivo.
la soppressione della esecutività provvisoria della sentenza (ex art. 282 c.p.c.) rende più incerta la situazione del lavoratore, nonostante la richiesta di quest’ultimo abbia trovato un iniziale accoglimento. L’esecutività provvisoria, infatti, consiste nell’idoneità a produrre effetti di una sentenza che non dovrebbe averla, cioè una sentenza non passata in giudicato; la ratio dell’istituto mira ad assecondare, seppure provvisoriamente, la richiesta dell’attore quando la posizione di quest’ultimo sia rafforzata da una sentenza di primo grado.
Il problema dell’incertezza e della durata del giudizio gravano adesso ulteriormente sul lavoratore il quale potrebbe conseguire una tutela solo indennitaria o una tutela reale con soglia risarcitoria massima di dodici mensilità fino al provvedimento di reintegro.
Si sente spesso dire che l’onere della prova posto a carico del datore di lavoro ex art.5 della legge 15 luglio 1966, n°604 , sia stato invertito a scapito del lavoratore. In realtà il meccanismo è più complesso rispetto ad una semplice inversione dell’onere della prova. Prima della riforma, qualora fosse stato impugnato un licenziamento individuale nell’ambito di applicazione dello Statuto dei Lavoratori ex art. 35 dello stesso, il giudice aveva dinanzi a se due possibilità: accertare la giustificatezza del licenziamento o accogliere la domanda del lavoratore-attore e applicare la tutela reale con la reintegrazione.
Adesso, invece, le possibilità diventano tre:
la giustificatezza del licenziamento per la quale l’onere della prova è a carico del datore di lavoro.
l’ingiustificatezza semplice, che non prevede la reintegrazione, è deducibile logicamente qualora il datore di lavoro non sia in grado di provare la legittimità del suo atto risolutivo.
l’ingiustificatezza qualificata. Il lavoratore dovrà provare i fatti costitutivi di questa ipotesi qualificata per avere accesso alla reintegrazione.
Resta invariato il campo di applicazione dello Statuto dei Lavoratori, mantenendo così intatta la profonda biforcazione che divide il mercato del lavoro (aziende con meno/più di 15 dipendenti, ex art.35 della legge 20 maggio del 1970, n°300), nonostante, ab immemorabili, ambienti tecnici per eccellenza, quali il mondo accademico e quello giurisprudenziale, auspichino un intervento risolutivo in tal senso.
Resta altresì invariata la previsione di limiti solamente procedurali per i licenziamenti collettivi (si può discutere del ‘chi’ ma mai del ‘sé’).
ALCUNI CHIARIMENTI SULL’ART. 18.
L’articolo 18 dello statuto del Lavoratori è stato l’aspetto più critico della Riforma. Durante l’iter di formazione e approvazione della riforma, ci hanno detto che era necessaria una modifica della disciplina dei licenziamenti individuali perché la disciplina originaria rendeva impossibile licenziare i lavoratori nelle medie e grandi imprese. Ma qualcosa non quadra.
L’esigenza della nostra classe politica imprenditoriale è quella di rendere più semplice i licenziamenti individuali, ma ad essere riformato non è la regola e il meccanismo del licenziamento, bensì la sanzione prevista per i licenziamenti “per motivi economici” illegittimi.
L’articolo 18 dello statuto dei Lavoratori disciplina, infatti, come abbiamo visto, la sanzione in caso di licenziamenti individuali illegittimi, per le aziende con più di 15 dipendenti, prevedendo, nel suo testo originario il reintegro del lavoratore. Nella nuova formulazione si sostituisce al reintegro una semplice indennità.
Lo ribadiamo per essere chiari: la riforma non rende più agevoli i licenziamenti individuali, perché la regola resta la stessa (gli imprenditori dispongono ora degli STESSI strumenti di cui disponevano prima per licenziare) … ma è reso più agevole il licenziamento “per motivi economici” illegittimo.
Qual è quindi la finalità della modifica dell’art 18? Proviamo a rispondere a questa domanda chiarendo che il reintegro era una forte tutela riconosciuta ai lavoratori contro i licenziamenti effettuati dal datore di lavoro per motivi politici e sindacali (appunto illegittimi).
È evidente la finalità politica e ideologica di tale modifica: consentire agli imprenditori di liberarsi più liberamente di lavoratori “scomodi”, perché accertata l’illegittimità del licenziamento, non si ha l’obbligo di reintegrarlo nel posto di lavoro, ma solo di pagare un indennità pari a 12 mensilità (che per le grandi aziende non comporta eccessive difficoltà in termini economici).
Insomma, l’effetto è quello di spostare l’asticella dei rapporti di forza tra le classi, a vantaggio della borghesia imprenditoriale. Indebolisce la classe lavoratrice, rendendola più ricattabile!